Edward Bernays

Infanzia e giovinezza
Edward Louis Bernays nacque a Vienna il 22 novembre 1891 da una famiglia di religione ebraica strettamente imparentata con il fondatore della Psicoanalisi Sigmund Freud: mentre il padre Ely era il fratello di Martha Bernays (la moglie dello psicoanalista), la madre Anna era la sorella dello stesso Freud.
Nel 1892 la famiglia emigrò negli Stati Uniti, a New York, ma questo non impedì a Bernays di intrattenere dei rapporti con lo zio andandolo a trovare spesso durante i periodi di vacanza sulle Alpi.
Quella con lo zio fu una relazione molto importante vista soprattutto, secondo un testimone dell’epoca, la frequenza con cui il nome del celebre psicanalista entrava nei discorsi del giovane Edward come una sorta di nume tutelare, figura che ricoprirà anche in seguito nel suo lavoro da consulente di comunicazione.
Nella metropoli della Grande Mela il padre Ely fece fortuna e la sua impresa attiva nel commercio dei cereali ebbe un certo successo, circostanza che instradò Edward nel settore agricolo e che lo spinse a laurearsi nel 1912 in Agraria alla Cornell University.
Nonostante il suo titolo di studio, ben presto Edward abbandonò la via paterna e si mise a lavorare come giornalista per il periodico National Nurseyman e per il Medical Review of Reviews, rivista medica in cui Bernays mise a segno il primo colpo della sua carriera.
Nel 1913 uscì un articolo di commento a favore dell’opera teatrale del drammaturgo francese Eugène Brieux intitolata “Les Avariés” (“Il danno”): la storia narrava di un uomo che, nascondendo la propria sifilide alla moglie, portò questa a partorire un figlio sifilitico.
In Francia, l’opera fu oggetto di censura e relegata a spettacoli in circoli privati perché considerata scandalosa, soprattutto per la descrizione che faceva del sistema sanitario.
Trovandosi in Europa, l’attore americano Richard Bennett dichiarò di volerla rilanciare negli Stati Uniti, traspondendola anche in un film.
Bernays immaginò il clamore e l’ostilità che avrebbe suscitato il caso nella parte più conservatrice dell’opinione pubblica schierandosi subito con l’attore e, forte della fama di quest’ultimo, diede vita al Sociological Fund Commitee, grazie a cui promosse una raccolta fondi.
Il coinvolgimento di star dello showbusiness come testimonial aiutò l’opera a vedere la luce negli Usa con il titolo di “Damage goods”, poi trasferita anche al cinema nel 1914 con Bennett nella parte del protagonista.
I Primi passi come Pr: i balletti russi
Il caso dell’opera maledetta proveniente dalla Francia rappresentò il trampolino di lancio di Bernays per fare il salto dal campo giornalistico a quello di promoter (Pr) di artisti famosi.
Fra i suoi clienti c’erano il celebre cantante d’opera lirica Enrico Caruso e la Compagnia di balli russi di Sergej Pavlovič Djagilev.
I balletti russi in quel periodo non riscuotevano gran successo nel pubblico americano ma Bernays pensò di sensibilizzare il mondo dell’informazione con un lavoro che oggi si direbbe propriamente di ufficio stampa.
Infatti, inviò alle redazioni dei brevi opuscoli illustrativi sulle esibizioni e sul corpo di ballo, incluse le biografie di ballerini e autori, facendo stampare una corposa guida pubblicitaria da distribuire durante il tour.
Inoltre, inventò una campagna basata sui gadget, mettendosi d’accordo con delle aziende per produrre oggettistica legata allo spettacolo.
Il risultato fu un trionfo: a New York la compagnia di Djagilev, al suo arrivo al porto, fu accolta da un numeroso pubblico assiepato e plaudente lungo le banchine.
La Prima Guerra Mondiale
Nel 1917 Bernays ebbe un incarico di grande prestigio: fu scelto come uno dei membri del Committee on Public Information (CPI), l’ufficio creato il 13 aprile dal Presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson per organizzare una campagna a favore dell’ingresso del Paese nel conflitto che si combatteva in Europa.
Il 6 aprile, infatti, era stata dichiarata guerra alla Germania e all’Austria in appoggio alle potenze dell’Intesa (Francia, Regno Unito e Russia).
Il comitato, meglio conosciuto come “Creel Committee” dal nome dell’ideatore (il giornalista George Creel) includeva a parte lo stesso Presidente, ministri, giornalisti e pubblicitari fra cui Bernays.
Si ramificava in varie parti del mondo con uffici in trenta paesi e pose sotto la sua ala sia l’informazione (“News Division”) che l’industria cinematografica (“Film Division”), da cui una serie di film di propaganda con titoli inequivocabilmente propagandistici, come “Il Kaiser la belva di Berlino”.
La massiccia campagna propagandistica si tradusse in milioni di poster sulle strade, fra cui il famosissimo Zio Sam che punta l’indice con la scritta “I want you for US Army”.
Manifesto originale con il famoso Zio Sam
Fu la prima macchina di propaganda governativa al mondo.
Il termine “propaganda”, tuttavia, non convinceva né Wilson né Creel, che preferivano parole dal suono più neutro e asettico come “informazione” o “educazione”.
Creel sosteneva che il CPI non faceva propaganda “come la Germania”, ma poi dava all’indottrinamento un significato che non si discostava dall’intento di direzione delle coscienze parlando di diffusione della “fede”.
Per inciso, l’origine storica del vocabolo va fatto risalire alla Congregazione “De Propaganda Fide”, fondata da papa Gregorio XV nel 1622 quando la Chiesa Cattolica, allora in piena Controriforma, si lanciò alla conversione degli infedeli e degli eretici.
Si trattava di fabbricare false notizie su crimini di guerra in realtà mai compiuti dal nemico, o produrre documenti finti per dimostrare, ad esempio, inesistenti legami diretti del leader rivoluzionario russo Lenin con la Germania.
Si vellicavano le ansie profonde della collettività americana, trascinata in un conflitto lontano con un intervento di cui molti non comprendevano l’urgenza e la necessità.
Per questo, specialmente il nemico tedesco doveva essere mostrificato e demonizzato a dovere.
La motivazione politica con cui Wilson giustificò l’entrata in guerra era “portare la democrazia in tutta l’Europa”, bandiera con cui i four minute men, i 75 mila volontari sparsi per gli Stati della Federazione, diffondevano in discorsi di appunto 4 minuti gli argomenti elaborati dal Comitato.
Gli oratori erano attori, docenti, magistrati, o personalità note a livello locale.
Fu un battage di una pervasività senza precedenti, coronato da successo: i giovani corsero a offrirsi volontari per il reclutamento e i buoni obbligazionari emanati dal governo per finanziare lo sforzo bellico, i Liberty Loan, furono acquistati a milioni.
Notevole fu l’impatto anche sulla quotidianità, perfino in termini di alimentazione: l’invito a consumare meno e a non darsi agli sprechi venne accolto positivamente e modificò le abitudini diffuse, fino a indurre a creare nelle case degli orti in cui coltivare da soli gli ortaggi.
In questo esempio da manuale su come plasmare l’immaginario collettivo, Bernays si dimostrò molto capace e il suo lavoro fu apprezzato al punto che il suo nome fu poi inserito nello staff che accompagnò il Presidente alla Conferenza di Pace a Versailles.
In quell’occasione, il giovane e promettente consulente firmò una campagna mirata per la riconversione dei militari alla vita civile, in particolare per reinserire i reduci negli ambienti di lavoro.
Dalla Propaganda alla Pubblicità
La Grande Guerra fornì a Edward Bernays non solo il banco di prova ma soprattutto l’intuizione che le tecniche di orientamento delle masse, dopo essere state testate a fini bellici, avrebbero potuto essere utilizzate a scopi commerciali.
La propaganda si tradusse così in pubblicità e con la qualifica di “direttore pubblicitario” Bernays prese ufficio in una piccola sede nel quartiere newyorkese di Broadway.
Negli anni precedenti era tornato a far capolino nella sua vita professionale lo zio Sigmund Freud, che gli aveva spedito in regalo la sua Introduzione alla psicanalisi.
Fu grazie allo studio dell’inconscio che Bernays si avviò alla pratica manipolatoria degli impulsi irrazionali e inconsapevoli della mente, superando il puro e semplice bersagliamento di messaggi allora tanto in voga per passare all’evocazione di emozioni inconsce.
Il momento storico era propizio: nel dopoguerra, le grandi imprese americane si erano abituate a volumi di produzione, a causa delle esigenze militari, sproporzionate alla capacità di assorbimento dei consumatori.
In pratica, c’era troppa offerta rispetto alla domanda, in una classica crisi di sovrapproduzione.
Fino a quel momento, i prodotti di consumo erano stati pubblicizzati come generi di necessità, magnificandone gli aspetti funzionali e di durata mentre la vendita era centrata sul bisogno più o meno pratico o più o meno reale.
Il salto realizzato da Edward Bernays consistette nel passare alla costruzione di un immaginario fondato sul desiderio: mentre il bisogno è limitato, il desiderio è potenzialmente infinito.
I prodotti da comprare non dovevano più servire a un uso specifico e circoscritto, ma a soddisfare aspettative socialmente condivise, appositamente create e alimentate per essere tradotte in acquisti.
Il vero prodotto da vendere non era più l’oggetto-merce ma l’emozione che spingesse all’atto di comprarlo.
Gli anni ’20
L’uomo giusto per applicare questa nuova teoria, che avrebbe rivoluzionato il modo di consumare estendendosi poi a ogni rapporto sociale, fu Edward Bernays, che nel 1920 rinominò il suo ufficio in “Ufficio di Relazioni Pubbliche” e si attribuì la qualifica di “consulente in pubbliche relazioni”.
Fu l’inizio di una carriera improntata alla missione di fabbricare industrialmente un nuovo modello di consumatore, da lui teorizzato nel libro autobiografico Cristallizing public opinion (1923, che poi si seppe aver ispirato anche Joseph Goebbels, il futuro Ministro della Propaganda del Terzo Reich).
Bernays fu incaricato dall’editore William Randolph Hearst di trasformare in senso pubblicitario le riviste femminili del suo gruppo editoriale, ricorrendo su vasta scala alla tecnica (già sperimentata) del testimonial: un personaggio famoso che diventa testimone positivo di un certo articolo.
Edward Bernays introdusse poi il product placement, ossia piazzare occultamente un certo prodotto, come gioielli o vestiti, nei film.
Dal punto di vista psicologico, ebbe l’idea di equiparare le auto a simboli di virilità maschile, fino a finanziare “ricerche” da parte di psicologi per convalidare “scientificamente” le virtù di una merce: il punto era creare ad arte delle identità fittizie attraverso cui veicolare l’impulso all’acquisto.
Bernays non fu estraneo nemmeno alla corsa all’indebitamento che investì gli Stati Uniti nella bolla borsistica degli anni ’20 e impiegò i suoi accorgimenti per convincere l’uomo della strada a comprare titoli azionari mediante prestiti dalle banche.
La fama ormai conquistata da Bernays non passò inosservata e lo richiamarono in servizio da Washington: l’allora presidente, Calvin Coolidge, aveva urgente bisogno di rifarsi un’immagine.
Bernays allora ricorse alla collaudata tecnica del testimonial: radunò 34 star dello spettacolo, fra cui le Dolly Sisters (Ed Wynn e Al Jolson) e organizzò una serie photo opportunity per svecchiare la percezione di Coolidge, ritratto dai media come un personaggio spento e troppo austero, ottenendo l’effetto cercato.
Lo zio Freud in America
Un inaspettato e involontario aiuto venne a Bernays anche dallo zio Freud che, nei primi anni ’20, versava economicamente in cattive acque anche a causa della gravissima crisi inflazionistica che polverizzava redditi e risparmi.
Freud, in pratica sull’orlo del fallimento, scrisse al nipote per chiedergli una mano e Bernays sfruttò l’occasione per lanciare la prima edizione delle opere freudiane negli Stati Uniti.
Questa iniziativa assicurò un po’ di ossigeno finanziario all’illustre parente attraverso i diritti d’autore dei testi pubblicati.
Per Bernays fu una sfida promuovere una scienza ancora giovane e controversa, specie sui temi (freudianamente fondanti ma a quei tempi scaborsi) relativi alla sessualità.
In sostanza, se il nome di Freud cominciò a diffondersi in America, lo si deve a una vera e propria campagna di lancio che Edward Bernays imbastì per raccoglierne successivamente i frutti, in termini di credito scientifico e, soprattutto, di ritorno economico.
Nella strategia di marketing sul “prodotto Freud”, il consulente propose allo zio di scrivere un articolo per la rivista Cosmopolitan.
Bernays aveva pensato a tutto, anche al titolo del pezzo: “Il luogo della psiche della donna nella casa”.
La reazione di Freud fu rabbiosa: trovò la pensata inaccettabile e di una volgarità inammissibile aggiungendo che, a ogni buon conto, lui era pure anti-americano.
Lo psicanalista era entrato nella sua ultima fase, sempre più pessimista sul genere umano, come fanno fede le sue opere più tarde come Il Disagio della Civiltà (1930), in cui indagava il lato più aggressivo e autodistruttivo dell’uomo sostenendo che il progresso altro non è che una forma di repressione istintuale in cui la civilizzazione va di pari passo con un aumento della frustrazione.
La pubblicazione “bernaysiana” dei libri di Freud ebbe però un notevole impatto sull’élite intellettuale americana, che rimase affascinata proprio dall’inquietante oscurità delle forze psichiche così ben descritte dallo zio di Bernays.
La Psicologia delle Masse, in particolare, fu la branca di studi freudiani che interessò di più i circoli intellettuali negli Usa.
In Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921), Freud scriveva:
“Nella vita psichica del singolo, l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico e pertanto in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è anche fin dall’inizio psicologia sociale”.
Lippmann, il precursore di Bernays
Il risvolto politico era importantissimo, soprattutto per le conseguenze che poteva avere la scoperta dell’irrazionalità sempre in agguato al fondo di ogni scelta individuale.
Vale a dire che l’assunto su cui si basava la democrazia di tipo liberale, la capacità di decisione in base a un calcolo dei costi e dei benefici, era tecnicamente fallace.
Lo studioso di comunicazione più influente di quel periodo, Walter Lippmann, lo scrisse a chiare lettere nel suo libro del 1922, Opinione pubblica, considerato una pietra miliare.
Essendo la massa un “branco selvaggio”, scriveva Lippmann, occorreva ridefinire una élite che potesse guidarla con tecniche psicologiche che, di fatto, erano quelle avviate da Bernays.
Secondo Lippmann (e in realtà secondo la mentalità dell’epoca), a dominare le folle era la parte più arcaica e animale dell’anima: le pulsioni, per dirla in linguaggio freudiano.
“Il singolo” – argomentava – “non ha un’opinione su tutte le questioni pubbliche.
Non sa come dirigere i pubblici affari.
Non sa che cosa succede, perché succede, che cosa dovrebbe succedere.
Non riesco ad immaginare come potrebbe, né esiste la benché minima ragione per credere, come hanno fatto i democratici mistici, che il mescolio delle ignoranze individuali in masse di persone possa produrre una forza continua che imprima una direzione alle questioni pubbliche”.
Lippman era un liberale, ma non era affatto democratico, non almeno nel senso che oggi noi diamo alla parola democrazia.
Secondo lui, infatti, “il pubblico deve essere tenuto al suo posto, non solo perché possa esercitare i suoi poteri, ma ancor di più per consentire ad ognuno di noi di vivere libero dallo scalpiccio e dal rumore del gregge disorientato”.
Lippmann non aveva remore a invocare la censura:
“senza una qualche forma di censura, la propaganda nello stretto senso della parola non è attuabile. Per condurre una propaganda ci deve essere una qualche forma di barriera tra il pubblico e gli eventi.
L’accesso agli ambienti (dell’informazione, NdC) deve essere limitato, così da evitare che qualcuno possa creare uno pseudo-ambiente da sé e ritenerlo giusto o desiderabile”.
Di qui a concepire un regime dominato da capi-popolo, il passo era breve:
“L’elaborazione di una volontà generale da una moltitudine di desideri generali è (…) un’arte ben conosciuta a leader, politici e comitati direttivi.
Consiste essenzialmente nell’utilizzo di simboli che costruiscono le emozioni dopo averle staccate dalle rispettive idee.
Poiché i sentimenti sono molto meno specifici delle idee… il leader è capace di ottenere una volontà omogenea da un’eterogenea massa di desideri. Il processo attraverso il quale le opinioni generali sono spinte alla cooperazione consiste nell’intensificazione dei sentimenti e una parallela degradazione dei significati”.
Teorico della Propaganda
Edward Bernays, che aveva già anticipato nella pratica queste idee, saccheggiò Lippmann di quel che bastava per mettere per iscritto tesi generali in cui assunse anche i panni del teorico, definendosi un “ingegnere del consenso”.
Fu così che nel 1928 uscì nelle librerie Propaganda, il suo testo più famoso.
Più che Lippmann, Bernays citava a piene mani la scuola dello zio Freud:
“Sono gli psicologi della scuola freudiana ad avere mostrato che molti dei pensieri e azioni di un individuo sono sostituti compensativi di desideri che hanno dovuto sopprimere. Un oggetto può essere desiderato non per il suo valore o utilità intrinseca, ma perché è diventato il simbolo di un desiderio diverso che l’individuo si vergogna di ammettere. Un uomo che acquista un auto, può pensare di aver bisogno di un mezzo di trasporto, mentre in realtà forse ne farebbe volentieri a meno e andrebbe volentieri a piedi per ragioni di salute. In realtà la compra perché è uno status symbol, una prova del suo successo professionale e un modo di compiacere a sua moglie”.
La sua idea capitale era che una “manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse svolge un ruolo importante in una società democratica”, per cui chi sappia maneggiarla può diventare un “potere invisibile” in grado di “dirigere” un paese: “Coloro che hanno in mano questo meccanismo (…) costituiscono (…) il vero potere esecutivo del paese. Noi siamo dominati, la nostra mente plasmata, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite, da gente di cui non abbiamo mai sentito parlare. […] Sono loro che manovrano i fili…”.
E ancora:
“Se vogliamo capire il meccanismo e le motivazioni della mente di gruppo, non è forse possibile controllare le masse secondo la nostra volontà, a loro insaputa?
La recente pratica di propaganda ha dimostrato che è possibile, almeno fino a un certo punto ed entro certi limiti”.
La verità, insomma, è che se il progresso civile e l’alfabetizzazione culturale e tecnica hanno “strappato il potere ai sovrani per consegnarlo al popolo”, ben presto “la minoranza ha scoperto di poter influenzare la maggioranza in funzione dei suoi interessi”.
Il presupposto concettuale era caro alla scuola di pensiero del liberalismo: la democrazia, ovvero la sovranità esercitata dal popolo, doveva essere limitata e condizionata da un potere dall’alto che imbrigliasse gli umori e gli istinti della massa, considerata appunto alla stregua di un essere infantile, in preda alla pulsionalità dell’inconscio.
Il che si traduceva nel creare ad arte desideri in sostanza fasulli, ma basati sui reali istinti primari (paura, invidia, ecc), per volgerli ai propri scopi, di lucro commerciale o di dominio politico.
Nell’illustrare i meccanismi già testati sul campo, Bernays prendeva come esempio un lavoro pubblicitario messo a punto per conto di un produttore di carne.
La vecchia pubblicità recitava così: “Mangia il bacon perché è economico, perché è buono, perché ti dà energia”.
Un approccio migliore sarebbe stato quello, spiegava Bernays, di “radicare la campagna pubblicitaria nell’analisi delle strutture collettive della società e dei principi della società di massa”.
Il moderno agente pubblicitario avrebbe allora dovuto chiedersi chi influenza le abitudini alimentari del pubblico.
La risposta, in quel caso, era l’esperto del settore, ovvero il medico generico.
Il Pr, il Public Relations counsellor, doveva cercare di persuadere i medici “a dire pubblicamente che mangiare bacon è salutare“, perché si sa “con matematica certezza”, concludeva Bernays, che “un gran numero di persone seguirà il consiglio dei propri dottori, perché comprende le relazioni psicologiche di dipendenza tra gli uomini e i loro medici”.
Come far fumare anche le donne?
Foto originale di Lady Red, testimonial di una campagna pubblicitaria sostenuta da Lucky Strike nel 1936
Il biennio 1928-29 rappresentò la consacrazione per Bernays, che mise a segno due colpi da maestro.
Il primo fu il successo della promozione di una nuova auto, la Dodge Victory Six, grazie allo spazio in un programma radiofonico di tarda serata partecipato dalle celebrità dello star system che fecero guadagnare alla trasmissione degli ascolti da record.
Il secondo fu la campagna “Le fiaccole della libertà”, con cui Bernays convinse milioni di donne americane a fumare sigarette.
Occorre sapere infatti che le donne rappresentavano un mercato molto appetito dalle aziende di tabacco, visto che per ragioni culturali il fumo per loro era considerato tabù, quanto meno in pubblico.
Il presidente dell’associazione dei produttori di tabacco (American Tobacco Company), George Washington Hill, si rivolse a Bernays per escogitare il modo di superare questo divieto morale.
In quel caso, Bernays si fece consigliare da uno psicanalista, Abraham Arend Brill, che aveva studiato in Svizzera con Carl Gustav Jung (l’allievo più importante di Freud, con il quale era nato un dissidio da cui sarebbe sorta, in contrapposizione a quella freudiana, la scuola junghiana), e aveva tradotto molte opere sia di Freud che di Jung.
Secondo Brill, la sigaretta rappresentava per la donna il membro maschile, ovvero il potere fallico del maschio.
In ossequio alla teoria dell’invidia del pene, per Brill bisognava suscitare nelle donne il desiderio del fallo, ovvero di incorporare il potere sessuale maschile.
Per trovare un’applicazione pratica a questa ipotesi, Bernays ebbe un’idea ingegnosa: fece mettere delle sigarette (di marca Lucky Strike) sotto la gonna a dieci ricche debuttanti femministe nella consueta e affollata parata pasquale di Broadway a New York e, al suo segnale, le avrebbero sfilate e accese ostentatamente.
La trovata stava più nel fatto che Bernays avrebbe precedentemente avvisato la stampa che delle suffragette avrebbero messo in scena una protesta per il diritto della donna a fumare, attribuendo alle sigarette il valore di “torce della libertà”.
Il clamore era assicurato per giornalisti e fotografi.
Lo slogan richiamava la torcia della Statua della Libertà, simbolo di New York e dell’America.
Patriottismo e diritti si combinavano in una miscela perfetta per supportare l’acquisto del prodotto e difatti, il 1° aprile 1929 il New York Times uscì con questo titolo: “Gruppo di ragazze accendono sigarette come gesto di libertà”.
Dal giorno dopo, gli indici di vendita delle “bionde” cominciarono a salire.
L’atto di fumare per le donne era stato sdoganato e nei decenni successivi, in effetti, diventò un simbolo di indipendenza individuale.
Solo trent’anni dopo Bernays si sarebbe detto pentito di aver contribuito a diffondere un’abitudine nociva per la salute: “Se avessi saputo nel 1928 quello che so oggi avrei rifiutato l’offerta di Hill”.
Nel frattempo il fumo si era trasformato in vizio nazionale e trasversale, soprattutto grazie alla figura, pompata dalla Philip Morris, del celebre cowboy Marlboro.
L’era del consumismo
Il successo della campagna per il fumo femminile confermò Bernays nella convinzione che, a differenza di oggetti importanti come per esempio l’automobile, beni meno significativi (o per meglio dire superflui come le sigarette) andavano venduti non facendo appello all’intelletto ma all’aspettativa di una vita migliore, a “sentirsi meglio” comprando proprio quel prodotto.
Era la riprova che la riuscita di una campagna pubblicitaria dipendeva dall’identificazione emotiva dell’individuo con l’aura evocativa, preparata a tavolino, di data merce.
Equivaleva a vendere un’identità, se non addirittura la felicità.
La merce diventava un pretesto per intervenire sui bisogni suscitandone di indotti, cioè di artificiali.
La temperie storica dei “ruggenti anni ‘20”, del resto, era favorevole.
Si legge ad esempio in un brano tratto dal romanzo Babbitt di Sinclair Lewis, premio Nobel per la letteratura nel 1930:
“(…) così come i pastori della chiesa presbiteriana gli dettavano in ogni particolare la fede religiosa e a Washington, in stanzette piene di fumo, i senatori detenevano il controllo del partito repubblicano, decidevano quel che doveva pensare del disarmo, delle tariffe doganali e della Germania, allo stesso modo le grandi agenzie pubblicitarie determinavano la superficie dell’esistenza, fissavano ciò che egli credeva fosse la sua individualità.
Questi prodotti standard reclamizzati – dentifrici, calze, pneumatici, macchine fotografiche, scaldabagni – erano i suoi simboli, le prove della sua superiorità: in un primo tempo segni, e poi sostituti della gioia, della passione, della saggezza”.
La consapevolezza di ciò, benché ancora non di larga diffusione, era stata compresa appieno dai suoi maggiori beneficiari: i membri della upper class, che sfoggiavano uno stile di vita alla moda.
Prendiamo come esempio una dichiarazione di Fifi Stillman, ricca appartenente all’high society americana:
“Esiste una psicologia nel vestire, ci avete mai pensato? Come potete esprimere il vostro carattere? Voi tutte avete delle personalità interessanti, ma alcune sono tenute nascoste. Mi domando come mai volete vestirvi sempre uguali, con gli stessi cappelli, le stesse giacche. Sono sicura che ognuna di voi è interessante, e possiede dei talenti meravigliosi, ma guardandovi per strada mi sembrate praticamente tutte uguali, ed è per questo che vi sto parlando della psicologia del vestire. Cercate di esprimere meglio voi stesse per mezzo dei vestiti. Fate emergere certe cose di voi che pensate siano nascoste, e mi domando se avete mai pensato a certi lati della vostra personalità”.
La psicologia del consumo aveva implicazioni politiche inquietanti di cui Edward Bernays, assertore della “democrazia americana”, forse non si rendeva del tutto conto.
Una volta saturato il campo immaginativo dei desideri, l’industria di massa sedava, ricoprendole con la “polvere di stelle” delle promesse pubblicitarie, le fisiologiche spinte di insoddisfazione e ribellione verso l’ordine sociale e le sue disuguaglianze.
Come non mancarono di notare i più acuti commentatori dell’epoca, la democrazia negli Stati Uniti aveva subito un cambiamento di paradigma: era stata rimodulata da dentro, culturalmente, in consumismo.
Il cittadino americano era cittadino formalmente, ma nelle abitudini psicologiche si era tramutato in consumatore.
Era esattamente quello che faceva al caso dei gruppi dominanti di allora: la finanza e la politica, intrecciate in un rapporto spesso simbiotico.
Di questo mondo, Bernays era divenuto il beniamino, ricchissimo e quotato: viveva in un attico nel lussuoso hotel newyorkese Sherry-Netherland, e faceva vita mondana organizzando party in cui era normale vedere il sindaco, i leader politici, giornalisti, artisti, imprenditori e finanzieri.
Insomma, la créme della società.
Essere attorniato dai giri che contavano, vedersi ricercato e ossequiato, provocò in Bernays una sindrome da auto-sopravvalutazione: chi non la pensava come lui diventava ai suoi occhi, solo per questo fatto, uno stupido.
Il successo, in altre parole, gli aveva dato un po’ alla testa.
La Grande Depressione
Con l’arrivo del’29, anno della crisi della Borsa e dello scoppio della bolla di Wall Street, iniziò la Grande Depressione.
Alla Casa Bianca sedeva Herbert Hoover, presidente repubblicano che sposava in pieno le tesi di Bernays: il consumismo doveva divenire la religione laica d’America.
“Voi” – dichiarò davanti a una platea di addetti alle pubbliche relazioni e pubblicitari – “avete accettato il compito di creare i desideri delle persone, e di trasformarle in macchine della felicità che si muovono continuamente, macchine che sono diventate la chiave del progresso economico”.
In quel fatidico 1929 cadeva il cinquantesimo anniversario dell’invenzione della lampadina elettrica, e la General Electric e la Westinghouse incaricarono Bernays di indire un grande evento mediatico, l’inaugurazione del nuovo Edison Institute of Technology, preceduta da una campagna di ben sei mesi.
Al taglio del nastro, con l’intera stampa mobilitata, erano presenti il presidente Hoover e tutti i principali esponenti dell’élite del Paese: John D. Rockefeller, Henry Ford, Orville Wright, Marie Curie.
Il caso volle che proprio durante la celebrazione iniziarono a fluire le prime terrificanti notizie sulla piazza borsistica di Wall Street: il più gigantesco crollo della finanza americana, il Big Crash, era cominciato.
Il panico si diffuse in poche ore, in quel fatidico 29 ottobre del 1929 passato alla Storia come il “Venerdì nero”.
Gli effetti sulla psiche collettiva furono immediati: il boom dei consumi degli anni precedenti si restrinsero in pochi giorni, generando una catastrofe a catena che si estese anche all’Europa.
L'influenza su Goebbels
Dal cataclisma finanziario emersero, come reazione alla spaventosa disoccupazione che ne scaturì, fenomeni politici nuovi.
Da una parte, negli Stati Uniti, il cosiddetto “New Deal”, il nuovo corso promosso dal presidente Franklin Delano Roosevelt e dall’altra, in Germania, il nazismo.
Fu proprio il nazismo a dimostrare di aver compreso appieno la lezione di Bernays (a sua volta, come abbiamo visto, una filiazione delle teorie di Sigmund Freud).
Già prima dell’avvento al potere, con la nomina a Cancelliere del Reich, Adolf Hitler seppe avvalersi della straordinaria abilità di Joseph Goebbels, capo del partito nazista a Berlino e “mago” della propaganda.
Goebbels, come poi rivelò in un’intervista a un giornale americano, aveva letto e meditato i saggi di Bernays e ne applicò gli insegnamenti su vasta scala per fini politici.
Il futuro Propaganda Reichsminister aveva capito che “conquistare il cuore della nazione” era possibile non solo sfruttando la paura (specialmente della violenza fisica, da parte degli squadristi inquadrati nelle formazioni paramilitari del partito, le SA e le SS), ma anche, e ancor di più, con la sapiente sollecitazione dei desideri più frustrati, repressi o rimossi del popolo tedesco, uscito sconfitto e umiliato dalla guerra e dal Trattato di Versailles.
Mentre il padre spirituale di Bernays, Freud, aveva messo in guardia dallo scatenare le forze bestiali dormienti nel subconscio collettivo, Goebbels mise in piedi un’efficiente macchina propagandistica per incoraggiarle e farle venire allo scoperto, così da volgerle a proprio vantaggio.
La formula goebbelsiana di comunicazione per manipolare le masse era un’iper-semplificazione della teoria di Bernays: i contenuti politici dovevano essere ridotti a pochi concetti esposti in forme stereotipate, slogan ripetuti all’infinito fino a quando anche l’ultimo e meno informato dei tedeschi non avesse recepito il messaggio.
In più, Goebbels non solo assumeva, ma teorizzava apertamente la menzogna, spiegando che non bisogna mostrare, e neppure esaminare la verità dei fatti da un punto di vista oggettivo, ma rendere visibile solo quella parte di verità favorevole al proprio punto di vista.
È il significato di propaganda nel suo senso più deteriore.
Le campagne elettorali con cui, dal 1930 in poi, nel volgere di appena tre anni i nazionalsocialisti si impadronirono del governo della Germania furono tecnicamente capolavori di audacia innovativa nell’uso delle ultime tecniche di manipolazione di massa.
Gli immensi raduni in cui troneggiava la figura messianica di Hitler, le fiaccolate notturne, le marce militari e, non ultimo, il martellamento di concetti semplici, chiari e di grande presa emotiva, ricorrendo, senza farsene minimamente un problema, a forzare e falsificare la realtà: tutto questo, fuso insieme, ebbe un effetto dirompente sull’opinione pubblica, socialmente sconvolta dalle drammatiche conseguenze della crisi economica mondiale.
Fu grazie a Goebbels, avido lettore di Bernays, che Hitler riuscì a imporre il culto della sua persona e a rendere la svastica il simbolo della promessa di rinascita della potenza germanica.
Ironia della sorte, il fanatico antisemita Goebbels ebbe per maestro un Bernays che era ebreo di famiglia, e che a sua volta aveva come maestro l’ebreo Freud.
Un Freud che nel 1939 dovette abbandonare l’Austria in seguito all’annessione al Terzo Reich, in cui erano in vigore da quattro anni le leggi razziali.
Contro Roosevelt
Negli Stati Uniti, il lavoro di Bernays (pur rallentato dalla contrazione dei consumi e dal relativo ridimensionamento della cultura consumistica) non si arrestò e la sua agenzia di comunicazione continuò ad avere come clienti grosse imprese, mantenendo alti gli introiti.
Nel 1932 Edward Bernays venne convocato da General Motors per assisterla nel tentativo di far risalire le vendite, le quali si erano quasi dimezzate.
L’occasione fu data dal Salone dell’Automobile di quell’anno, che diede a Bernays l’idea di “attrarre chi spende generosamente e lanciare una nuova linea di auto destinate ad offrire il massimo comfort”.
Visto che la massa di consumatori era in grave difficoltà economica, tanto valeva puntare al target di potenziali clienti ricchi che tuttora esistevano.
Bernays allora fondò il Metropolitan Committee on Better Transportation, un’iniziativa per dare credibilità alle modifiche migliorative in forza delle quali sostenere la campagna di rilancio degli autoveicoli di alta gamma.
Tuttavia il 1932 fu soprattutto l’anno dell’elezione alla Presidenza del democratico Franklin Delano Roosevelt.
Il nome di questo uomo politico è legato al New Deal, la nuova via che si poneva come terza rispetto sia al capitalismo selvaggio, sperimentato prima della Crisi, sia ai totalitarismi di stampo comunista (Unione Sovietica) o fascista (Italia e, dall’anno dopo, Germania).
Roosevelt, in sostanza, lungo tutti gli anni Trenta cambiò l’assetto dell’economia americana, conferendo allo Stato un potere dirigista e interventista che dai critici venne bollato come un attentato alla proprietà e libertà privata.
Fra gli avversari ideologici del rooseveltismo, in prima linea c’erano le grandi corporations per cui lavorava Bernays che, difatti, si ritrovò convintamente all’opposizione del “nuovo corso”.
La grande finanza e la grande industria, infatti, non potevano tollerare un aumento del peso del pubblico sul mercato privato e considerarono le nuove e più stringenti regole come un’indebita intromissione negli affari.
Ciononostante Roosevelt seppe conquistare il consenso popolare, in questo coadiuvato da uno statistico esperto in scienze sociali, George Gallup (1901-1984) che la pensava all’opposto di Bernays.
Secondo Gallup, l’essere umano non è primariamente, né tanto meno esclusivamente un bambino in balìa del proprio inconscio ma è dotato anche, in misura variabile, di una parte adulta capace di discernere e decidere consapevolmente.
Di qui l’idea di ricorrere ai sondaggi, cioè alla misurazione delle opinioni e dei comportamenti collettivi, con questionari che non avessero il precipuo scopo di manipolare la coscienza dell’individuo sobillandone la parte più emotiva e influenzabile.
Era un attestato di fiducia nei confronti dell’opinione pubblica.
La prima fase dell’opera politica di Roosevelt fu ripagata: nella tornata presidenziale del 1936 fu trionfalmente rieletto, con grande scorno di imprenditori e affaristi che ora vedevano seriamente minacciato il controllo che di fatto avevano sulla società americana.
Decisero così di passare al contrattacco.
Radunatisi in conciliaboli a porte chiuse sotto l’insegna della NAM (National Association of Manufacturers, o Associazione dei Produttori), i maggiori businessmen americani si erano ormai convinti che fosse necessario scatenare una vera guerra culturale contro il New Deal in nome del libero mercato (cioè, dei loro interessi).
Punta di lancia della contromossa anti-Roosevelt fu la General Motors di cui era consulente Bernays.
Il fondatore delle moderne Pubbliche Relazioni, che ormai aveva generato una progenie di discepoli e imitatori, si mise al servizio di una campagna in grande stile centrata sulla seguente tesi: il capitalismo sarebbe tornato a rendere grande l’America, se non fosse stato oppresso dai vincoli socialistoidi dell’amministrazione di sinistra.
Il governo Roosevelt rispose con una contro-campagna diretta a screditare la figura dell’addetto alle relazioni pubbliche, raffigurato come un propagandista manipolatore da cui i cittadini avrebbero dovuto guardarsi imparando a non fidarsi dei media (di proprietà dei gruppi industriali e finanziari).
Nel 1939 New York ospitò l’Esposizione Universale e per Bernays, che ne curava la comunicazione, il filo conduttore doveva essere il rapporto democrazia e business.
Nel padiglione centrale c’era un’enorme sfera bianca a cui Bernays diede il nome di “Democracittà“, mentre a dominare la mostra c’era un modello meccanico gigante del futuro dell’America, costruito dalla General Motors.
L’Expo fu la grande opportunità per far passare il messaggio che non c’era democrazia senza capitalismo e che il capitalismo aveva la capacità di superare i limiti dell’immaginazione, soddisfacendo i desideri popolari.
Insomma, rappresentò la vetrina dell’ideologia che, attraverso il rilancio del consumismo, era posta a difesa dei privilegi sociali della classe più ricca.
L’esposizione fu di un successo tale da far recuperare terreno al fronte che si opponeva all’intervento pubblico in economia.
Verso la Seconda Guerra Mondiale
Frattanto, dalla vecchia Europa spiravano venti di guerra: la Germania hitleriana si espandeva a ritmo impressionante.
L’anno precedente c’erano stati l’Anschluss, l’annessione dell’Austria, e subito l’incorporazione della regione cecoslovacca dei Sudeti (grazie alla famigerata Conferenza di Monaco), mentre nel 1939 avvenne l’ulteriore smembramento della Cecoslovacchia, con la parte céca (Boemia e Moravia) trasformata in protettatorato tedesco.
Nel novembre 1938, con la “Notte dei Cristalli”, si era aperta una stagione di aperta persecuzione degli ebrei, che erano già stati abbassati al rango di cittadini di serie B.
L’insieme di questi eventi doveva avere conseguenze dirette sulla famiglia dello zio di Bernays, Freud.
L’anziano psicanalista si risolse per lasciare Vienna, doveva viveva, per emigrare in Inghilterra, che tuttavia non vedeva di buon occhio l’arrivo di profughi di religione ebraica.
Ad aiutarlo fu il collega Ernest Jones che, tramite le sue conoscenze (faceva parte dello stesso club di pattinaggio del ministro degli interni, Samuel Hall), riuscì a ottenere un permesso di ingresso per Freud che finalmente prese residenza a Londra, nel quartiere di Hampstead, con la figlia Anna.
Il tumore alla mandibola che lo affliggeva era ormai allo stadio avanzato e, nel settembre 1939, dopo neppure un mese dallo scoppio della guerra, il fondatore della psicanalisi morì.
Bernays proseguiva a svolgere con successo il suo lavoro di agente pubblicitario più in vista d’America.
Nel 1939 ricevette un incarico da James M. Skinner, il presidente di Philco (l’azienda di elettrodomestici) per aumentare le vendite.
Inizialmente, Bernays lanciò un nuovo modello di radio hi-fi, che venne però criticato dagli esperti di musica per la qualità insufficiente nella riproduzione del suono.
Per smentire la critica, la Philco noleggiò una sala da ballo dell’hotel Waldorf Astoria di New York invitando a cantare la voce lirica spagnola Lucrezia Bori.
Il giorno successivo all’esibizione, le prime pagine dei giornali erano piene di elogi dell’apparecchio radio.
La strategia riguardante la radio però comprendeva più piani: nuovi programmi per diffondere l’ascolto della musica, nuovi modelli di qualità ancora superiore destinati a una clientela di lusso, e la sponsorizzazione da parte del Radio Institute of Audible Arts (RIIA).
L’obiettivo di incrementare le vendite fu così raggiunto e Bernays creò anche, all’interno del proprio appartamento, una sala ad hoc per l’ascolto di brani musicali, facendo lui stesso da testimonial di una nuova linea di apparecchi radiofonici pensati come componenti dell’arredamento.
Dichiarò: “La radio, che era una sorta di giocattolo per il popolino, diventa lo strumento musicale dei ricchi”.
Un altro caso fu quello della Beechnut Packing Company, il più grande produttore di pancetta (bacon) degli Usa: negli anni ’40 le vendite erano calate per via delle colazioni meno ricche, perché la gente tendeva a risparmiare, tagliando dove poteva.
Bernays, chiamato in soccorso, si rivolse a medici di fiducia, facendo loro sostenere che un’abbondante colazione fosse garanzia di salute, molto di più rispetto a una leggera.
Fece partecipare 5 mila dottori a un sondaggio per confermare la tesi e, dopo una ben orchestrata insistenza di mesi sul concetto, di lì a meno di un anno le vendite della Beechnut erano tornate ai livelli precedenti.
Il coinvolgimento di esperti per la loro competenza è una caratteristica del sistema di gestione della pubblica opinione che, come acutamente sottolineato da un grande studioso del ramo, il linguista Noam Chomsky, va ben al di là delle esigenze di bilancio delle imprese.
Si configura come una struttura permanente di legittimazione del potere, allargandosi all’intero comparto intellettuale, educativo, scientifico, culturale.
“È un sistema di propaganda privatizzato – scrive Chomsky – che comprende i media, i giornali di opinione e più in generale un’ampia parte dell’intellighenzia e delle persone istruite. I più articolati elementi di questo gruppo, i quali hanno accesso ai media, inclusi i giornali intellettuali, e che sostanzialmente controllano l’apparato educativo, dovrebbero essere più propriamente chiamati come una classe di ‘commissari’.
Questa è la loro essenziale funzione: progettare, propagandare e creare un sistema di dottrine e credenze che scalzeranno pensieri e idee indipendenti e preverranno la comprensione e l’analisi delle strutture istituzionali e la loro formazione. Questo è il loro ruolo sociale. Non intendo dire che lo fanno consciamente. Infatti non lo fanno”.
Incamminandosi su tale strada, è evidente che si minano le basi stesse di una democrazia correttamente intesa.
Il sociologo francese Philippe Breton, cita a sua volta il connazionale Jacques Ellul (1912-1994), poliedrico pensatore che ha lasciato profondissime pagine sull’argomento:
“L’obiettivo della propaganda è la soppressione della possibilità di scelta che è alle basi della democrazia. Viene dunque ad essere esercitata per dare l’illusione di un accordo tra il propagandista e la sua vittima. Jacques Ellul sottolinea che l’esistenza della propaganda moderna è legata ad una doppia presa di coscienza, da un lato, dell’effettiva efficacia sulle folle della messa in opera di tecniche d’influenza, dall’altro dell’importanza della psicologia nell’ambito della politica.
La propaganda, ma anche in termini più generali delle altre tecniche di manipolazione psicologica, può essere dunque definita come un metodo di presentazione e di diffusione di un’opinione in modo tale che il suo ricevente creda di essere d’accordo con questa e nello stesso tempo si trovi nell’incapacità di fare un’altra scelta a riguardo”.
La ricerca motivazionale
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le scoperte nel campo della psicologia sociale fatte da Bernays a un livello intuitivo a fini di immediata applicazione, ebbero una versione teoreticamente raffinata in Ernest Dichter.
Lo psicologo austriaco aderente all’orientamento psicanalitico, nato anch’egli a Vienna nel 1907, si era trasferito negli Usa nel 1938 e nel 1946 fondò un istituto che è alla base dell’odierna ricerca motivazionale.
Dichter indagò le motivazioni che inducono l’individuo all’acquisto e mise a punto una metodologia basata su due espedienti, già utilizzati ma non sistematizzati: il colloquio in profondità (depth interview) e il gruppo di discussione (focus group).
I giornali lo definirono il “Freud di Madison Avenue”.
A differenza del maestro, Dichter non disdegnò gli incarichi ben remunerati da parte delle aziende: prima la rivista Esquire, poi la corporation delle auto Chrysler.
Anche Dichter, come Bernays, era un ottimista ideologico, un portabandiera dell’edonismo di massa.
Si esprimeva in termini quasi messianici:
“Dobbiamo usare le moderne tecniche motivazionali di ricerca sociale per rendere le persone costruttivamente insoddisfatte liberandole dal falso paradiso dell’inconsapevole felicità animale per portarle nel vero paradiso di una vita di cambiamento e progresso.
Le tecniche di persuasione rappresentano le forze che possono insegnarci a scegliere tra uno stile di vita miserabile, primitivo e bestiale e un modo di pensare positivo e pienamente umano in un mondo nuovo e in continuo mutamento”.
Anche Freud, la cui impostazione di pensiero affondava le radici nel positivismo ottocentesco, si considerava un progressista ma, come già detto, sulla natura come sulle conseguenze dell’avanzata della civiltà non si faceva illusioni.
Né tanto meno ne spacciava a buon mercato, men che meno con toni millenaristici.
La disciplina da lui fondata si chiama psico-analisi perché doveva restare essenzialmente, appunto, un’analisi della psiche, finalizzata alla conoscenza di sé.
Era, nelle sue intenzioni, una ricerca di verità anche e soprattutto scomoda e disturbante e in quanto tale inevitabilmente portata all’autocritica e all’autolimitazione.
Non era diretta al perseguimento del puro piacere, né indicava nel benessere materiale ed economico la soluzione delle nevrosi.
Anticomunismo: il caso Guatemala
In quegli anni, Bernays rimase al vertice del settore delle Public Relations lavorando spesso per la politica, incluso il presidente Dwight D. Eisenhower.
Fece anche da consulente d’immagine a Claire Booth Luce, un nome che in Italia ha avuto un peso: ambasciatrice americana nel pieno delle tensioni da “cortina di ferro” e anti-comunista accanita fu la promotrice, fra gli altri, dei primi nuclei organizzati della struttura segreta “Stay behind”, conosciuta poi come “Gladio”, che avrebbe dovuto mettersi in moto in caso di presa del potere da parte del Partito Comunista Italiano.
Nell’intollerante e isterica atmosfera di crociata anti-comunista (maccartismo) che fra anni ’40 e ’50 investì gli Usa, da buon sostenitore del primato capitalistico anche Bernays fu coinvolto nella guerra ideologica con i “rossi”, risvolto culturale della Guerra Fredda contro il blocco capeggiato dall’Unione Sovietica.
Fra i suoi clienti figurava la United Fruit Company, proprietaria di estese piantagioni di banane in Guatemala (quella, per capirci, del bollino Chiquita).
Nei decenni addietro, la multinazionale aveva avuto in pugno i governi dittatoriali locali, previa corruzione (di qui il nomignolo dato al Paese di “Repubblica delle banane”).
Nel 1953, tuttavia, venne eletto un giovane colonnello, Jacobo Arbenz Guzmán, che aveva promesso alla sua gente di sbarazzarsi del protettorato della corporation americana, procedendo alla confisca delle terre.
La United Fruit chiese a Bernays cosa doveva fare per liberarsi del “liberatore” e Bernays posò lo sguardo sulla mappa notando la vicinanza geografica del Guatemala ai confini americani: ecco, quel governo ostile agli interessi di un’azienda Usa doveva diventare una minaccia per gli interi Stati Uniti e per la loro democrazia.
Per dipingerlo come un nemico della democrazia, da socialista democratico quale era, Arbenz fu reso comunista.
Bernays fece pagare alla United Fruit un viaggio in cui i giornalisti americani, dopo essersi divertiti a dovere, incontrarono politici locali appositamente prezzolati che fornirono la versione voluta: Arbenz era un pericoloso agente di Mosca.
Ci fu chi considerò le violente dimostrazioni anti-americane scoppiate in piazza proprio in quei giorni come una mossa obliqua organizzata da Bernays stesso, che giunse a creare un’agenzia di stampa fintamente indipendente, la Middle America Information Bureau, per bersagliare il pubblico americano con la tesi che l’Urss utilizzava il Guatemala come base per un attacco agli Usa.
La missione di Bernays – far sentire gli americani a rischio – poté dirsi compiuta: anche l’amministrazione Eisenhower si convinse che non solo la politica di Arbenz andava fermata, ma che Ardenz stesso dovesse essere rovesciato.
Non potendo aggredire apertamente il piccolo Paese, i servizi segreti della Cia avrebbero dovuto fare il lavoro sporco, organizzando un colpo di Stato.
La storia è stata raccontata, sia pur in forma romanzata, nel libro Tempi duri dello scrittore Mario Vargas Llosa.
Con la collaborazione della United Fruit, la Cia preparò un esercito di ribelli mettendovi a capo un ufficiale rivale di Arbenz, il colonnello Carlos Castillo Armas.
L’agente segreto responsabile dell’operazione, Howard Hunt, spiegò in seguito:
“Volevamo fare una campagna terroristica, in particolare per terrorizzare Arbenz e le sue truppe, un po’ come i bombardieri Stukas terrorizzavano la popolazione bombardando l’Olanda, il Belgio e la Polonia all’inizio della seconda guerra mondiale.
Riuscivamo a paralizzare la gente dal terrore”.
Il riferimento agli Stukas, gli aerei tedeschi che planavano incendiando gli obbiettivi a bassa quota, non era del tutto metaforico: la capitale, Città del Guatemala, venne effettivamente
bombardata con la fattiva assistenza americana mentre Bernays seguitava nella sua campagna stampa in patria.
Gli americani dovevano trarre un giudizio preciso dagli eventi in corso: con quella guerra civile creata a bella posta, si sarebbe riportata la democrazia in uno Stato finito sotto gli artigli del blocco comunista.
Il suo compito era, in pratica, di far accettare all’opinione pubblica un golpe, che in sé di democratico non aveva nulla, specie contro un governo che era stato democraticamente eletto.
Il colpo di Stato andò a buon fine: il 27 giugno 1954 Arbenz, sconfitto, fu costretto ad abbandonare il Paese, e gli subentrò il filo-americano Armas.
Qualche mese dopo gli fece visita l’allora vicepresidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, a cui Bernays fece trovare, nell’ammasso di oggetti lasciati dal nemico in fuga, molti libri e pubblicazioni di carattere comunista.
In quell’occasione, Nixon dichiarò:
“È la prima volta, nella storia del mondo, che un paese comunista viene spodestato dal popolo.
Per questo ci congratuliamo con Armas e con il popolo del Guatemala per il sostegno fornito. Siamo sicuri che con la vostra guida, sostenuta dal popolo, dai cittadini che ho incontrato a centinaia in questa visita, il Guatemala entrerà in una nuova era, in cui ci sarà prosperità e libertà.
Moltissime grazie per averci permesso di vedere queste prove dell’infiltrazione terrorista in Guatemala”.
La psicologia sociale
La manipolazione dell’opinione pubblica, di cui il nipote di Freud di era reso artefice e non si pentì mai, era riuscita.
Bernays aveva avuto un’ennesima conferma del suo assioma: le persone non potevano essere razionalmente persuase, perché troppo condizionate da pregiudizi, abitudini e riflessi inconsci ma dovevano essere manovrate dall’alto facendo leva sui loro istinti primari, primo fra i quali la paura, e portati docilmente ad approvare decisioni per il loro bene.
“La mente collettiva” – aveva scritto nel suo saggio Propaganda – “non ragiona nel vero senso del termine.
Al posto dei pensieri ha gli impulsi, le abitudini e
le emozioni (…) il suo primo impulso è solitamente quello di seguire l’esempio di un leader fidato. Questo è uno dei principi basilari della psicologia di massa”.
Al fondo di questa concezione paternalistica e di fatto autoritaria, c’era un radicato pessimismo sulla razionalità umana, una visione apocalittica che Bernays condivideva con il pioniere dello studio della psicologia collettiva, il francese Gustave Lebon (1841-1931), autore del fondamentale Psicologie delle folle uscito nel 1895.
Aveva scritto Le Bon:
“Abbiamo dimostrato che le folle non ragionano, che esse accettano o respingono le idee in toto, che non tollerano né la discussione né la contraddizione, e che i suggerimenti loro presentati invadono l’intero campo della comprensione delle folle e tendono immediatamente a trasformarsi in azioni.
Abbiamo dimostrato che le folle adeguatamente influenzate sono disposte a sacrificare sé stesse per l’ideale dal quale esse sono state ispirate.
Abbiamo anche visto che esse riescono solo a provare sentimenti violenti ed estremi, che nel loro caso la simpatia diventa velocemente adorazione, e l’antipatia quasi nello stesso momento in cui è stimolata si trasforma in odio”.
Le Bon rimase isolato e nel 1904 uscì La folla e Il Pubblico del sociologo americano Robert Ezra Park.
Lo studioso, dopo aver esaminato l’evoluzione dei mezzi di comunicazione, notò come la “cosiddetta opinione pubblica” non era affatto quel circuito di scambio di pensieri razionalmente elaborati che l’Illuminismo aveva auspicato dal Settecento in poi, ma “generalmente niente più che un semplice impulso collettivo che può essere manipolato dagli slogan”.
Il giornalismo moderno, che “dovrebbe istruire e dirigere l’opinione pubblica riportando e discutendo gli eventi”, si stava rivelando “come un semplice meccanismo per controllare l’attenzione della collettività”.
“L’opinione che si viene a formare in questa maniera ha una forma logicamente simile al giudizio derivato da una percezione irriflessiva: l’opinione si forma direttamente e simultaneamente alla ricezione dell’informazione”.
Di lì a qualche anno sarebbe sorta ufficialmente come branca della psicologia la Psicologia Sociale, o almeno questa è la data tradizionalmente fissata a partire dalla pubblicazione di due libri, entrambi con questo titolo (“Social Psychology”), di un americano e di un inglese, rispettivamente Edward Ross e William McDougall.
In particolare il primo sottolineava come i media massificati avessero la facoltà, mai sperimentata prima dall’uomo, di azzerare le distanze spazio-temporali omologando le differenti opinioni pubbliche nazionali.
Secondo Ross, la prossimità fisica non vincolava più il “contatto mentale”, e l’effetto poteva essere quello di uno “shock simultaneo”, con il pubblico che condivideva “la stessa rabbia, allarmi, entusiasmi e orrori”.
Gli studi sui new media prendevano così abbrivio dall’individuazione di un fattore a cui Bernays contribuì sul campo: la suggestione collettiva.
Prendeva vita un campo di studi che ai giorni nostri è giunto sino al neuromarketing e all’indagine della dipendenza dai media, in particolare dai social media, in compenetrazione con l’assuefazione al consumo.
Un comportamento, quello indotto dall’uso abitudinario di merci mediali e industriali, giocato sulla dinamica soddisfazione/insoddisfazione affine alla dimensione sessuale.
Se inizialmente “mantenuto per la ricompensa del piacere o per il sollievo dal dispiacere, può perdere gradualmente la sua funzione di ricompensa, mentre cresce gradualmente il dispiacere che emerge in assenza del comportamento. Di conseguenza (…) può accadere che un comportamento permanga non tanto per la ricompensa, quanto per il sollievo dal dispiacere” .
La lezione di una vita: l'eredità di Bernays
La vecchiaia e la morte
Bernays era un fautore dell’american way of life, ma non era un estimatore dell’intelligenza media degli americani.
“Noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri gusti vengono formati, le nostre idee sono quasi totalmente influenzate da uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare.
Questo è il logico risultato del modo in cui la nostra società democratica è organizzata”.
La sua “ingegneria del consenso”, a conti fatti, corrispose a travisare scientificamente la realtà, a mentire per sostenere gli interessi del gruppo dominante della società americana.
Oggi diremmo che sarebbe un maestro non solo di advertising pubblicitario, di tecniche da spin doctor e di business Marketing, ma anche di fake news.
Qui è opportuna una citazione, davvero memorabile, della filosofa Hanna Arendt:
“Spinta al di là di un certo limite, la menzogna produce risultati contrari rispetto a quelli cercati: questo limite è raggiunto quando il pubblico al quale la menzogna è destinata è portato, per poter sopravvivere, a ignorare la frontiera che separa la verità dalla menzogna.
Quando siamo convinti che certe azioni sono per noi di una necessità vitale, non importa più che questa credenza si fondi sulla menzogna o sulla verità; la verità nella quale si può confidare sparisce totalmente dalla vita pubblica, e con essa sparisce il principale fattore di stabilità nel perpetuo movimento degli affari umani” .
In altre occasioni ha mitigato questo messaggio con l’idea che, sebbene la propaganda sia inevitabile, il sistema democratico consente un pluralismo di propaganda, mentre i sistemi fascisti offrono un’unica propaganda ufficiale.
Allo stesso tempo, Bernays fu lodato per il suo apparente successo, la sua saggezza, la sua lungimiranza e la sua influenza come creatore delle relazioni pubbliche.
Mentre le opinioni variavano da negative a positive, vi era un ampio consenso sul fatto che la propaganda avesse un potente effetto sulla mente del pubblico.
È impossibile comprendere a fondo gli sviluppi sociali, politici, economici e culturali degli ultimi 100 anni senza una certa comprensione di Bernays e dei suoi eredi professionali nell’industria delle relazioni pubbliche.
Le pubbliche relazioni sono un fenomeno del XX secolo e Bernays, ampiamente elogiato come “padre delle relazioni pubbliche” al momento della sua morte (il 9 Marzo 1995 a Cambridge), ha svolto un ruolo fondamentale nella definizione della filosofia e dei metodi del settore.
Le Opere di Bernays
Dal 1917 al 1986 Edward Bernays scrisse più di 15 libri, tra cui raffigurano i primi testi che tracciano le linee guida attorno al campo delle Pubbliche Relazioni.
Ecco l’elenco completo delle sue opere:
- The Broadway Anthology (1917)
- Crystallizing Public Opinion (1923)
- The Verdict of Public Opinion on Propaganda (1927)
- Propaganda, Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia (1928)
- Presenting American Business (1936)
- Public Relations as a Career (1937)
- Speak Up for Democracy (1940)
- Morale: First Line Of Defense? (1941)
- The Future of Private Enterprise in the Post-War World (1942)
- Tomorrow’s Public Relations: A Blueprint for American Business (1944)
- Take Your Place at the Peace Table (1945)
- The Social Responsibility of Public Relations (1945)
- The Engineering of Consent: A Scientific Approach to Public Relations (1947)
- East Orange and the East-West Freeway: A Study With Recommendations (1947)
- How Business Can Sell the American Way of Life to the American People (1950)
- The American Press and the Public: A Study and Recommendations (1958)
- Your Future in Public Relations (1961)
- Biography of an Idea: Memories of a Public Relations Counsel (1965)
- The Later Years: Public Relations Insights 1956-1986 (1986)
L’impatto sulla “propaganda”
Edward Bernays viene solitamente ricordato come il padre delle moderne “pubbliche relazioni” ma, in realtà, il merito andrebbe spartito con Ivy Lee (1877-1934).
Fattosi le ossa ai primi del Novecento come fondatore di una delle primissime agenzie di comunicazione degli Stati Uniti, la Parker&Lee, fu il principale consulente del magnate John D. Rockefeller e nell’ultimo scorcio della sua vita divenne anche presidente della Croce Rossa americana.
Dal canto suo Bernays – uno dei cento personaggi più influenti del Novecento americano, secondo la rivista Life – resta indiscutibilmente l’uomo-simbolo non solo delle public relations, ma (e più ancora) della teoria e delle tecniche di propaganda e organizzazione del consenso per due motivi.
Innanzitutto seppe fornire una teorizzazione compiuta al proprio lavoro firmando un libro, Propaganda, che resta ancor oggi il riferimento imprescindibile per chi voglia accostarsi all’argomento.
In secondo luogo, perché fu molto abile nel promuovere, oltre ai suoi clienti, sé stesso, la sua immagine e la sua carriera.
Sulla sua scrivania passarono i piani comunicativi delle maggiori aziende americane del tempo:
-
General Electric Company;
-
General Motors Corporation;
-
Philco;
-
United Fruit Company;
-
Westinghouse Electric Corporation;
-
Time Inc;
-
CBS;
-
NBC;
-
l’Hotel Association di New York City;
-
Waldorf-Astoria;
-
Procter&Gamble Company;
-
Celanese Corporation;
- Continental Baking Company.
Inoltre fu Bernays a coniare l’espressione “fabbrica del consenso”: il concetto-base era semplice, e corrisponde alla definizione universale di manipolazione mentale:
“Se comprendiamo il meccanismo e le motivazioni della mente collettiva, siamo in grado di controllare e irreggimentare le masse secondo la nostra volontà senza che se ne accorgano”.
Come persona, era piuttosto incolore, o almeno così lo descrive il suo biografo, Larry Tye.
Tuttavia, era dotato di una mente vulcanica, oltre che di un elevato grado di autostima.